Interviste

Anita Cerrato e l’arte di rendere preziosa una ferita

Anita Cerrato è una restauratrice di ceramiche con una grande passione e sensibilità per la cultura e l’estetica giapponese.
Da anni è specializzata nel Kintsugi, una tecnica di riparazione della ceramica che non nasconde le fratture dell’oggetto, ma le esalta impreziosendole: una bellezza imperfetta in grado di ridare vita e significato a qualsiasi oggetto.
Nel suo atelier a Milano realizza oggetti e complementi d’arredo di altissima qualità, con materie prime originali provenienti dal Sol Levante: il vasellame, la preziosa lacca urushi e l’oro marufun.
Quest’anno ha ottenuto il titolo MAM – Maestro d’Arte e Mestiere della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte.

Sei una maestra dell’arte del “Kintsugi”. In cosa consiste?
Il Kintsugi è un’antichissima forma di restauro della ceramica.
Secondo la leggenda più accreditata, ebbe origine nel XV secolo d.C., quando Ashikaga Yoshimasa, ottavo shogun di Ashikaga, dopo aver rotto la propria tazza di tè preferita, la inviò in Cina per farla aggiustare. Le riparazioni purtroppo avvenivano con legature metalliche poco estetiche e per niente funzionali. L’oggetto sembrava ormai perduto, ma il suo proprietario provò ad affidarlo ad alcuni artigiani giapponesi che, sorpresi dalla tenacia dello shogun nel voler riavere la sua amata tazza, decisero di provare a trasformarla in un gioiello riempiendo le crepe con resina laccata e polvere d’oro.
Per restaurare i frammenti si usano, tutt’oggi, gli stessi materiali che si utilizzavano in origine: la lacca urushi, la farina, il carbone, la polvere di argilla (tonoko), polveri d’oro e di argento.
A mio avviso il Kintsugi può essere considerato la più antica forma di restauro conservativo perché il danno non solo non viene camuffato, ma addirittura è messo in risalto, evidenziando la storia dell’oggetto.

Qual è stato il tuo percorso e come ti sei avvicinata a questa raffinatissima pratica?
So che sembra una ripetizione, ma grazie a questa tecnica ho fatto Kintsugi della mia vita. Lavoravo già da molti anni come restauratrice, nell’ambito del restauro ligneo e della doratura. Ho avuto la fortuna di avere grandi maestri e di lavorare in famose botteghe milanesi, come quelle dei Gacarù e di Sabatelli.
Purtroppo già verso la fine degli anni Novanta gli oggetti antichi hanno interessato sempre meno il pubblico. Avevo già restaurato i pezzi delle prime case, delle seconde e anche delle terze case dei miei clienti storici, ma non c’è stato ricambio generazionale, e ai figli non interessava più riempire le abitazioni di oggetti antichi. Così i prezzi di mercato sono crollati, con l’aggravante che gli appartamenti moderni sono tagliati al millimetro e spesso e volentieri è necessario fare mobili su misura. In più, sono venute a mancare figure di supporto come tornitori, intagliatori, ebanisti…
È stata una crisi generalizzata: gli artigiani che erano prossimi alla pensione si sono organizzati per chiudere, quelli più giovani, come me, hanno dovuto reinventarsi.
Io avevo la fortuna di avere un’ingente dote di libretti di foglia d’oro, che mi aveva lasciato Sabatelli quando ha chiuso. Così, avendo una grande passione per l’Oriente, avevo pensato di fare oggetti in legno rivestiti d’oro. Ho cercato su internet: oriente, oro, ciotole… e mi è apparsa una foto di una ciotola restaurata con il Kintsugi: subito mi sono innamorata. Ai tempi non era come adesso, che si trovano i tutorial su Youtube e si può acquistare l’urushi online. Giravano poche immagini e tutte in siti dove si parlava di psicanalisi e di traumi. Per capire come fare non ho avuto altra scelta che partire per il Giappone.

Quali altre tecniche utilizzi oltre al Kintsugi?
Il Kintsugi da “kin”, oro, e “tsugi”, ricongiunzione, è sicuramente la tecnica più conosciuta perché in Occidente le abbiamo attribuito un significato simbolico e la metafora che porta è diventata molto popolare.
Esistono anche altri metodi di restauro, come il “Ginstugi”, dove “gin” significa argento, l’ “Urushi tsugi”, per cui non si usano polveri metalliche per la finitura, ma si lascia a vista la lacca. Si possono, inoltre, fare alcuni inserti quando mancano i frammenti originali del pezzo: “Yobitsugi”, quando l’inserto è in ceramica, “Mokuhen”, quando l’inserto è in legno.
Attualmente sto apprendendo anche la tecnica del “Maki-e”, la laccatura, anche se ci vuole molto tempo perché è molto difficile e bisogna avere grandi doti illustrative.

Organizzi anche corsi nel tuo laboratorio? O altre iniziative per promuovere questa arte?
Il Kintsugi non è altro che una tecnica di restauro della ceramica, ma le persone che si approcciano alle lezioni per imparare a restaurare sono pochissime.
Quasi tutti arrivano da me per imparare a incollare i cocci, certo, ma ancora di più per sentirsi un po’ meno soli e trovare delle risposte.
L’Occidente è la culla della filosofia e della psicanalisi, e qui non si fa niente per farlo e basta; così un corso di Kintsugi diventa una seduta di autoanalisi, e io purtroppo non ho nessuna risposta da dare, come diceva Brecht: “non aspettarti nessuna risposta, oltre la tua”.
Così quando le persone mettono insieme i pezzi si chiedono quale sia la colla della loro esistenza, quando rimettono insieme i cocci si ricordano di quella esperienza tanto traumatica che, tutto sommato, è diventata un punto di svolta.
E più un pezzo è rotto più, alla fine, sarà ricco.
Questo viene a cercare da me la gente: rimettere insieme i pezzi, fare della propria vita un’opera d’arte. Per questo da anni ci impegniamo in attività non profit nei reparti oncologici, nelle case famiglia, nelle RSA, per portare avanti il messaggio del Kintsugi: da una difficoltà può nascere un’opportunità.

Quest’anno hai ottenuto il riconoscimento MAM – Maestro d’Arte e Mestiere della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Com’è stato ricevere questo riconoscimento, dedicato ai grandi maestri dell’artigianato artistico?
Ovviamente è stato un grandissimo onore, che mi ha fatto pensare che i ventotto anni passati in bottega non siano stati buttati. I momenti di frustrazione e di sensazione di fallimento sono stati molti, soprattutto in un paese che non aiuta molto gli artigiani.
Quello che non è mai considerato dalle istituzioni è che le nostre sono attività lente, anzi lentissime, quindi la tassazione su un guadagno è sproporzionata perché, se si vuole finire alla perfezione un oggetto, le ore non sono mai pagate. Un artigiano non può ottimizzare la produzione a discapito della qualità, come si fa in fabbrica.
Per essere onesta durante la cerimonia di premiazione mi sono sentita lusingata, ma anche in imbarazzo, perché accanto a me c’erano alcuni artigiani che hanno trascorso anche cinquant’anni in bottega, quindi mi sono detta che c’è ancora tanta strada da fare.

Come si coniuga tradizione e innovazione nel tuo lavoro?
La tradizione è insita nel processo di lavorazione e nei materiali, l’innovazione è portata avanti dalle idee e dalla creatività.
Un progetto sicuramente innovativo è quello di applicare la tecnica originale del Kintsugi a materiali non consueti. Tre anni fa è nata l’idea, con la fotografa Carola Guaineri, di restaurare foto strappate usando l’oro. Ci è voluta molta ricerca perché le carte su cui si stampa in camera oscura, ovvero carta baritata e politenata, temono l’umidità, mentre l’urushi per asciugare ha bisogno di un ambiente caldo e molto umido.
L’idea ha avuto molto successo, soprattutto durante la manifestazione “Homo Faber”, proprio perché abbiamo innovato il Kintsugi e lo abbiamo declinato in chiave moderna.
La speranza è quella, sempre e comunque, di riuscire a comunicare il bello unito alla dedizione.

Quali sono i progetti per il futuro della tua attività?
Attualmente sto lavorando a un progetto ambizioso e mastodontico al tempo stesso, incentrato sul tema della maschera… ma non posso rivelare troppo!

 

Kintsu Handmade
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25 ottobre 2022