Interviste

Comunicare il savoir-faire

Cultura del territorio, passione per la consuetudine artigianale, propensione verso la divulgazione: il francese Sam Baron, art director del centro di design di Fabrica e designer a tutto tondo, racconta il suo amore per il progedevctto pensato con le mani

Non è facile stare dietro a Sam Baron, che lavora tra Italia, Francia, Portogallo, ed è sempre in viaggio tra l’Europa e il resto del mondo, dove porta le sue mostre e partecipa ai più noti appuntamenti del mondo del design. Il designer francese, non ancora quarantenne, è noto nel mondo del progetto per il suo stare un po’ borderline tra la fabbrica e la bottega, tanto che negli ultimi dieci anni (la sua attività ha inizio nel 1997 prima ancora di terminare gli studi) ai pezzi realizzati per design brand come Zanotta, Ligne Roset, Casamania, si sono aggiunti progetti speciali fatti in collaborazione con importanti manifatture, come Sèvres e Limoges. A queste attività si sommano quella di responsabile della sezione design di Fabrica, la scuola-centro ricerche del gruppo Benetton  e i progetti personali portati avanti sotto la denominazione di Baron Edition.

Sam, oltre che come designer è attivo come art director e i suoi progetti sconfinano in installazioni e numerose mostre (come l’ultima «Belvedere», ospitata a Villa Necchi durante l’ultimo Salone del Mobile di Milano) dai contenuti culturali. Il design e la sua «messa in scena» sono dunque un mezzo valido per promuovere la difesa e il valore del savoir-faire?
Il design è un processo, una pratica, che ti permette di unire diverse cose: creatività, tecnica, comunicazione… quindi come art director mi è possibile trasmettere messaggi attraverso una collezione di oggetti focalizzati su particolari soggetti o temi, a seconda del caso. Credo che la possibilità di mettere dei giovani talenti (come accade nei lavori con il team di Fabrica, ndr) a elaborare delle nuove visioni sia una grande opportunità per stabilire una conversazione, quindi un contatto con il pubblico su certi temi come la difesa del patrimonio artigianale.

Lei lavora in tutta Europa con diverse manifatture. Da progettista, nota differenze o modalità di lavoro diverse tra questi luoghi, soprattutto in riferimento alle pratiche artigianali?
Ogni Paese ha le sue specificità in materia, che sicuramente si scoprono maggiormente mentre si lavora a stretto contatto con le aziende. Le abitudini di ogni Paese creano anche differenti modi di lavorare e mi impongono di dover scoprire e scovare ogni volta delle caratteristiche specifiche nella scelta dei partner con cui collaboro. È una cosa molto stimolante e interessante perché alla fine ti porta a considerare degli elementi che poi finiscono per guidare anche il progetto. Come è successo nella mia ultima collezione per Vista Alegre, Lusitania, dove per un servizio di porcellana ho reinterpretato in chiave contemporanea la tradizione degli azulejos, attraverso il mix and mach dei pattern.

Qual è la sua opinione sul ritorno di attenzione al pezzo di valore, all’unicità, nel design? E che differenze rileva con la cosiddetta design-art?
Quando parliamo di design ci riferiamo a una disciplina tutto sommato giovane, che nasce dopo la Seconda guerra mondiale, con l’obiettivo di fornire alle persone dei nuovi oggetti o arredi; da allora si susseguono diversi tentativi, tuttora in essere, per definire dove collocarla. Il design è passato dai suoi inizi, connotati da un linguaggio industriale, a una fase più concettuale, come capitava 20 anni fa con l’avanguardia olandese di Droog Design, alla fase arty che sembra contraddistinguerlo ancora adesso. Penso che il mercato offra spazio per tutti, sempre che il brief e le intenzioni rimangano chiare. Il peggio è quando si crea confusione e chi compra non capisce come e perché dovrebbe spendere i suoi soldi. Quindi, se qualcuno desidera un tavolo da pranzo unico nel suo genere perché non rivolgersi a una design gallery o direttamente a un artista, quando quello che interessa è un tavolo da usare per stare in compagnia con gli amici a cena?

Quali sono i suoi materiali prediletti e come ha affinato nel tempo la sua modalità di rapporto con chi mette in opera, usando tecniche e processi  diversi, le sue idee…?
Non ho dei materiali che preferisco in assoluto, anche se ai miei inizi ho lavorato in scala industriale con la ceramica e la porcellana. Forse quello che è più importante è il progresso che ho compiuto nel tempo: ho iniziato a progettare piccoli oggetti per poi passare all’arredamento e adesso allo spazio. Mi piace questa sorta di evoluzione nella mia carriera, che tiene insieme un po’ tutte le cose facendo da filo conduttore e si struttura in progressione organica, quasi naturale. Ho un rapporto molto stretto con chi lavora per me, devo rispettare e fidarmi di loro e delle loro capacità prima di tutto. Per fare un buon progetto ti devi sentire anzitutto a tuo agio con il tuo team. Mi piace essere sorpreso da persone che mettono passione nel loro lavoro; e poi nei vari progetti tutti noi vogliamo dimostrare che la nostra collaborazione ha qualcosa di speciale che porterà a risultati soddisfacenti, quando non unici.

Lei lavora molto con i giovani designer o aspiranti tali: che tipo di relazione hanno oggi le nuove generazioni con l’artigianato? Vede ricerche interessanti in atto, e in quali aspetti di ricerca è più interessante concentrarsi?
Penso che i giovani designer siano sensibili, aperti verso le competenze artigianali. Per quanto in questo momento sia diffusa l’idea che fare un prototipo possa bastare per essere un designer o fare un buon prodotto. Credo sia importante non dimenticare che noi abbiamo bisogno degli artigiani come loro di noi. E gli artigiani hanno un prezzo per esistere: per questo devono vendere il loro prodotto, per continuare a esistere. Spesso la strategia è quella di esibire con mostre il lavoro degli artigiani, quando in concreto bisognerebbe porsi il problema, in termini progettuali, di garantire loro una maggiore esistenza commerciale, in vista del futuro.

Che cosa pensa di tutto il fenomeno della maker culture? Che futuro prospetta per questo particolare approccio al design, considerando che sembra essere una forma di produzione artigianale evoluta?
Stiamo parlando di una moda perché mettiamo un’etichetta a qualcosa che esiste già da molto tempo? O stiamo rallegrandoci di fare qualcosa da noi, con le nostre mani, perché il mondo è stato trasformato in una finta realtà? Credo che la riflessione sulla maker-culture (dell’auto-progettazione fatta soprattutto con stampanti e macchine digitali, che ha diffuso una sorta di artigianato digitale sul quale si stanno costruendo numerose start-up, ndr) sia di per sé positiva, perché si interroga su dei possibili scenari di cambiamento, su dei comportamenti e quindi ha a che fare con il mondo in cui viviamo; ma allo stesso tempo credo che un artigiano sappia esattamente che cosa significa «fare». I designer si preoccupino di pensare e progettare!

http://mestieridarte.it/mda/