
Gesti lenti e storie universali
C’è un forte senso di unità e compiutezza nel lavoro di Andrea De Simeis, incisore e cartaio salentino, fondatore dell’Associazione Cubiarte. Unità tra pratica artigianale e intenzione artistica, tra mestiere e vita, tra passato e presente, tra sé e l’altro. Lavorare con la natura e con la sua ciclicità stagionale, ci racconta, è una continua educazione all’equilibrio: se ben accolta, può insegnarci che le nostre pratiche possono essere non solo sostenibili, ma anche profondamente in armonia con l’ambiente.
Maestro, lei è giunto alla pratica di cartaio partendo da studi d’arte, di grafica in particolare. Il mestiere è per lei funzionale all’intenzione artistica legata all’incisione?
All’inizio, la passione per la carta è stata un fenomeno collaterale, un’avventura. Mi sono però reso conto subito che nella grafica la qualità della carta non è secondaria rispetto all’opera stessa: basta provarne diverse per capire l’influenza, la resa espressiva rispetto alla matrice. Alla fine, la pratica artistica e quella artigiana si completano e si valorizzano, sono aspetti complementari dello stesso processo creativo.
Che ruolo hanno avuto i suoi maestri nell’acquisizione di questa consapevolezza?
Ho avuto alcuni maestri importanti e ce n’è uno tra tutti che ha avuto un ruolo fondamentale, il mio maestro di grafica all’Accademia di Belle Arti, Glauco Lendaro Càmilles, intimo amico di Pier Paolo Pasolini. Descrivere il suo insegnamento sulla lentezza non è per me facile, è come parlare del vento: ha costruito per me un percorso speciale, di una tale intensità che alle volte dopo le sue lezioni mi veniva la febbre. Era però un malessere condito di passione.
A lui sono seguiti altri maestri, in un percorso à rebours che giunge fino a quelli che ho avuto l’onore di avere in Giappone. Quando ho cominciato a produrre carta washi, una delegazione giapponese è venuta a verificare il mio lavoro, per valutarne la qualità. Non solo ho avuto l’onore di veder riconosciuto il mio operato, ma sono stato anche invitato a lavorare con due maestri – Yamamoto Sensei e Suzuki Sensei – cui è stato riconosciuto il titolo di Tesoro Vivente. Quell’invito, vissuto con l’emozionante ritualità tipica della cultura nipponica, è stato un momento di assoluta meraviglia nella mia vita e mi riconosce il merito di realizzare la miglior washi (carta al novero Unesco dal 2006) fuori dal territorio nipponico.
E che ruolo ha la lentezza, nel suo lavoro e nella sua vita?
Vivo nel mio Salento e ho adottato il ritmo di questa periferia, che ben si integra con il mio mestiere. Vivere e lavorare con le piante, soprattutto, educa alla ciclicità delle stagioni. Lo stile di vita e la professione sono in armonia, dando origine a buone pratiche che sono virtuose, funzionali alla qualità del lavoro e, paradossalmente, persino più efficienti, nella loro lentezza. Bisogna essere non solo o non tanto sostenibili, una parola che oggi viene un po’ abusata, ma in reale equilibrio con ambiente e territorio.
È corretto dire che nei viaggi nello spazio e nel tempo che sono oggetto delle sue opere, si manifesta un senso di universalità che trascende le singole storie?
Assolutamente. Per esempio, ho lavorato alla monografia illustrata sulla battaglia ai corni di Hattin – la più sanguinosa disfatta dei cristiani in Terrasanta per mano di Saladino – durante la guerra in Iraq, dopo l’attacco alle torri gemelle. Nelle mie incisioni, anche grazie al lavoro fatto sulla carta, cerco di restituire la ciclicità della storia e far emergere un seme di universalità. L’eterno pregiudizio, la negazione dell’altro, è da sempre il primo ingrediente di ogni conflitto.
A proposito di ciclicità, che rapporto ha con gli apprendisti, come la tirocinante ospitata nell’ambito del progetto “Una Scuola, un Lavoro” della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte?
Accolgo con gioia molti giovani apprendisti e tirocinanti, dall’Italia e dall’estero. È bellissimo incontrare il loro appetito di conoscenza e il mio laboratorio non ha segreti per loro: mi lascio completamente divorare. Il rapporto instaurato con Daniela Fumarola, che l’anno scorso ha trascorso con noi sei mesi, è stato più simile a un’adozione che a un tirocinio.
È vero che il suo primo apprendista è stato un po’ particolare?
Quando ho iniziato a esercitare il mestiere di cartaio, circa vent’anni fa, sono stato considerato pazzo da molti amici attorno a me. Avevo deciso di lasciare un lavoro sicuro come grafico, ben retribuito, per dedicarmi ad un mestiere antico e lento, che sembrava destinato a morire, come i libri di cui al tempo si profetizzava l’estinzione. Ho trovato la comprensione che altrove mi è mancata nei miei nonni: la loro generazione era stata educata alla lentezza, in armonia con i ritmi della natura. Così, hanno cominciato ad aiutarmi: posso dire che mio nonno Gino è stato il mio primo apprendista.
CUBIARTE di Andrea De Simeis
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