Lorenzo Foglia. Dalla tecnica all’arte: la forma liberata dell’argento

Dal 1935 esiste a Firenze una bottega orafa specializzata nella lavorazione dell’argento che si è gradualmente affermata come una vera accademia di questo mestiere. Il fondatore Carlo Foglia prima, il figlio Giuliano poi e, da molti anni ormai, il nipote Lorenzo, hanno contribuito a scrivere la storia recente dell’arte argentaria, creando oggetti straordinari e formando cesellatori che hanno portato il loro saper fare non solo in città ma anche in diverse parti del mondo.

Oggi, le opere di Lorenzo Foglia, nominato MAM – Maestro d’Arte e Mestiere nel 2018, sono il frutto maturo di una padronanza assoluta delle tecniche tradizionali, di una vasta cultura storica e di una libertà espressiva che, come accadeva nelle migliori botteghe rinascimentali, proiettano le sue sculture e l’argenteria tutta verso lo status di arte maggiore. Nelle sue parole, tutta la consapevolezza e la passione di un artigiano che guarda a Cellini e Leonardo come numi tutelari.

Maestro, ci racconta come la sua storia ebbe inizio?

Tutto iniziò da mio nonno Carlo, nato nel 1910, che non era toscano ma lombardo di Erba. Dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, decise di trasferirsi e di aprire la sua prima bottega orafa a Firenze, che riteneva – più ancora di Parigi – il fulcro della tradizione di questo mestiere. A mio nonno si affiancò mio padre Giuliano, e poi arrivai io, che già a 14 anni decisi di abbandonare gli studi e di entrare in bottega per disegnare, cesellare, battere il metallo. Per me era il gioco più bello del mondo! Se poi sono tornato a studiare, al liceo prima e all’università poi, l’ho fatto per guardare il mestiere con un occhio più distaccato, e comprendere in primis me stesso.

La sua formazione così pratica e precoce costituì un limite o un’arma in più?

Sebbene interamente parentale – direi made in Foglia – la mia formazione non mancò affatto di spessore teorico, anzi era come un’accademia. Mio nonno, che conobbi per pochi anni, e mio padre, mi trasmisero l’enorme importanza delle basi da affiancare alla pratica, e nella bottega si formarono in quegli anni davvero gran parte dei cesellatori fiorentini. Io non ho mai affrontato una scultura senza aver prima studiato lo sviluppo teorico, le proporzioni. Ho avuto però l’enorme vantaggio di vivere appieno la bottega, un’insostituibile scuola della dimensione della realtà, che non solo permette un continuo confronto ma consente anche di rubare, con gli occhi, i segreti del mestiere.

A livello stilistico, qual è il contributo della bottega Foglia all’arte argentiera?

Il nonno ha portato a Firenze uno stile baroccheggiante, fatto di sbalzi possenti che erano estranei alla tradizione fiorentina, più precisa e delicata ma anche più cervellotica, almeno nella lavorazione dell’argento. La potenza del barocco era, invece, di tradizione lombarda. Io ho sempre cercato di apprendere il più possibile e di acquisire la massima maestria tecnica, nella consapevolezza che la formazione non crea artisti ma bravi artigiani, così come il conservatorio non forma necessariamente grandi musicisti ma bravi insegnanti di musica. La tecnica è un punto di partenza, padroneggiarla è un portale per potersi esprimere liberamente.

E quale direzione ha preso la sua creatività?

Nei primi anni Duemila il settore degli argentieri era in crisi. Le famiglie facoltose, naturali destinatarie di lavorazioni con i metalli preziosi, non erano più interessate a riproduzioni di servizi barocchi, che avevano già in casa da generazioni. Si è dato il via a produzioni di massa che hanno banalizzato l’argento, insostenibili anche dal punto di vista ambientale. Acquistare un oggetto in argento dovrebbe essere come andare dal salumiere, scegliere il prodotto migliore e farselo affettare su misura. Non ci dovrebbero essere le monoporzioni confezionate in plastica! È un lusso, e come tale nasce dal desiderio, non dalla necessità. Io ho deciso di fare un salto nel vuoto, cominciando a disegnare in modo del tutto libero, svincolato da limiti stilistici e tecnici. Ho evitato di lasciare che la mia esperienza vincolasse la mia creatività, inducendomi a scegliere determinate soluzioni solo perché sapevo che erano quelle codificate dalla prospettiva del saper fare. Mi sono liberato dalla funzione, dedicandomi alla scultura, cercando di creare oggetti di cui ci si potesse innamorare, e ponendomi solo in seconda battuta il problema di come poterli realizzare.

Qual è la sua visione del rapporto tra artigiano e artista?

L’artigiano opera nell’ambito della sua formazione, il mestiere è la componente più accademica. Per evolvere bisogna violare certi stilemi, portare un elemento di novità. È la componente artistica che si fa carico di queste violazioni, o variazioni, che poi magari saranno a loro volta codificate rientrando così nell’ambito dell’artigianato. È il passaggio da arte minore ad arte maggiore, quello che hanno compiuto geni come Benvenuto Cellini, nella scultura, o Leonardo nella pittura. Il Rinascimento è nato proprio nelle botteghe orafe fiorentine, dove ricchi committenti affidavano ad artisti di fiducia i materiali preziosi necessari per realizzare qualcosa di nuovo e straordinario.

Lei collabora con designer, con grandi aziende. Le piace lasciarsi contaminare?

Sì, bisogna rompere gli equilibri canonici, accademici. Alcune aziende si rivolgono a me per arricchire la rappresentazione troppo meccanica di un loro oggetto, inventare un dettaglio che interrompa la serialità, una pseudo-perfezione che tale non è. Il mercato si stanca dell’automatismo, vuole l’irregolarità che crei la perfezione. L’umanità non è essere o non essere, zero o uno, come in un codice binario, essa è tutto quello che c’è in mezzo. Una macchina farebbe statue tutte uguali, mentre l’identità nasce dalla somma delle imperfezioni.

Da anni lei è passato dalla parte di chi insegna. Le piace trasmettere il suo saper fare ai giovani?

Non si è Maestri se non ci sono allievi. È una crescita comune, perché quando insegni scopri la realtà con gli occhi di chi apprende, che è come un bambino che scopre il mondo. È una responsabilità, perché quello che insegni diventerà per l’allievo come un assioma. Devi cercare di trovare le risposte dentro di te, e trasmetterle con la dovuta delicatezza. Avendo formato anche molti stranieri che vengono a Firenze, ho figli d’arte ovunque nel mondo, ed è emozionante trovare nel loro lavoro i segni di quel che ho insegnato.

FOGLIA FIRENZE 1935

Via Giotto, 76

50018 Scandicci (FI)

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Bottega Conticelli: il lusso che emoziona

Bottega Conticelli è una delle più riconosciute eccellenze artigiane italiane. Grazie al talento e alla creatività del Maestro d’Arte e Mestiere Stefano Conticelli, ora affiancato dal figlio Francesco, che ha anche saputo valorizzare il potenziale commerciale dell’attività del padre, le creazioni della Bottega realizzate in pelle – ma anche in legno, lana, ferro e iuta – sono oggetti del desiderio apprezzati e molto richiesti da appassionati e raffinati intenditori alla ricerca di un lusso semplice, essenziale, unico e su misura.

Parlare con il Maestro della sua Bottega, immersa nella natura non lontano da Orvieto, significa parlare di amore e di sensibilità, di natura e di cultura, di arte e di grande impegno. La sofisticata semplicità delle sue creazioni comunica un’attenzione che è innanzitutto desiderio di sorprendere con un sorriso, evocando la bellezza autentica del mondo.

Maestro, com’è stato crescere in bottega?

Da bambino, me lo ricordo benissimo, mi infilavo in tutti gli angoli della bottega dello zio, curiosavo, mettevo le mani dappertutto. Il mio babbo mi realizzò un piccolo banco di lavoro, dove scolpivo le mie teste di legno e le decoravo con cuoio e capelli di stoppa: avevo cinque anni e già mi dilettavo in un lavoro da artigiano!
Orvieto a quel tempo era piena di botteghe, di artigiani e artisti, ognuna con i suoi profumi, i suoi rumori, la sua storia, e io mi infilavo in tutte: era una gioia per me. Era sempre una grande scoperta, è come se avessi avuto tanti babbi, e grazie a ognuno di loro ho sviluppato una sensibilità per la bellezza. Perché la bottega è bellezza.

Quali insegnamenti le ha trasmesso suo padre?

Mio padre mi ha trasmesso tantissimi insegnamenti. Mi è sempre stato vicino e mi ha lasciato sperimentare liberamente, permettendomi di scoprire ogni materiale e di sviluppare la mia creatività. E poi, insieme a mia madre, mi ha trasmesso un profondo amore per la natura, che ancora oggi è un aspetto fondamentale del mio lavoro. Mi ispira tutto ciò che la natura ci offre ogni giorno, fin dal risveglio: il cielo, il vento, le nuvole, i suoni, il tramonto, i paesaggi, il mare, le stelle, il cosmo, la luna, gli animali… ogni dettaglio è per me fonte inesauribile di ispirazione. La natura non smette mai di offrire visioni incredibili.

Tra poco accoglierà in bottega un nuovo tirocinante del progetto Una Scuola Un Lavoro della Fondazione Cologni. Cosa vorrebbe trasmettergli?

Entrare in bottega per un tirocinante è un momento importante, perché può lasciare un segno profondo, una sorta di imprinting. L’aspetto fondamentale è sviluppare la sensibilità: solo l’esperienza diretta in bottega, con tutta la sua profondità, permette a ragazze e ragazzi di toccare, ascoltare, annusare i materiali, e di coglierne con i sensi la vera identità.

La sensibilità di un artigiano è un talento innato o si può apprendere?

Senza dubbio è qualcosa di innato, ma può essere coltivata. Un artigiano può sviluppare la consapevolezza che certi dettagli, all’apparenza secondari, sono invece fondamentali. Basta pensare a una scatola, alla confezione con cui si spedisce un oggetto realizzato a mano: si può fare in mille modi, ma la cura di ogni singolo aspetto – a partire, per esempio, dal profumo – racconta la sensibilità che hai messo nella creazione. Parla di te, ti rappresenta. In bottega, tutto ha un senso: ogni dettaglio comunica l’amore che deve essere parte integrante del lavoro quotidiano.

La semplicità giocosa e quasi ingenua di alcuni suoi pezzi è sicuramente una sua eccellenza. Come si ottiene la semplicità?

La semplicità può sembrare banale, ma in realtà è molto complessa: richiede lavoro e un approfondito studio delle forme, delle proporzioni e dell’utilizzo. È necessario eliminare tutto ciò che non serve, per arrivare all’essenza stessa della materia. Bisogna far emergere l’eleganza e la raffinatezza, come con una pietra preziosa, che non cambia la propria natura ma risplende luminosa per l’intervento del lavoro dell’artista.

Le sue creazioni sono molto apprezzate da importanti marchi del lusso con cui collabora. Qual è il suo concetto di lusso?

Lusso è una parola abusata, come “amore”, come “artista”, e per questo ha perso identità. Mi confronto spesso con persone che potrebbero permettersi quasi tutto, ma che cercano qualcosa di unico e fatto su misura per loro: un’emozione che il lusso commerciale non è più in grado di offrire. In bottega cerchiamo di realizzare i loro sogni.
Il lusso è cultura, è storia, è arte. È una pratica minuziosa, che mette in evidenza la bellezza dei dettagli. Una pratica che meriterebbe di essere sostenuta e tutelata di più, non solo dal lavoro assolutamente encomiabile di realtà come la Fondazione Cologni ma anche dalle istituzioni, per salvaguardare artigiani, artisti e tradizioni.

C’è qualche progetto che non ha ancora realizzato?

Non c’è mai una fine a ciò che si può creare: ogni giorno va alimentato con nuovo nettare. In tutte le botteghe è la sperimentazione a guidare la ricerca del nuovo, e il nostro mondo ci offre sempre qualcosa di nuovo da raccontare. La creatività non conosce confini.

Bottega Conticelli

Tel: +39 0763 627971

E-mail: info@bottegaconticelli.it

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Contrada Torraccia

05013 – Castel Giorgio (TR)

ITALIA

Daniele Mingardo: visioni di artigianato contemporaneo

Figlio d’arte, Daniele Mingardo è un giovane ma affermato Maestro della lavorazione dei metalli che è riuscito, ancora giovanissimo, a far evolvere l’avviata attività familiare in un progetto totalmente contemporaneo. Appassionato di design e naturalmente propenso alle sfide, a soli 25 anni Daniele ha cambiato la prospettiva della carpenteria metallica fondata nel 1970 a Monselice (PD) dal padre Ilario, affiancando al lavoro su commissione la creazione di una collezione di oggetti realizzati manualmente, dallo stile elegante e minimale, progettati da un network di designer internazionali sotto la guida di un art director e prodotti in edizione limitata. Un’idea di successo, che non ha sacrificato, bensì esaltato l’anima artigiana di Mingardo, facendo emergere un nuovo marchio che esprime l’essenza dell’artigianato contemporaneo.

A soli venticinque anni hai dato il via alla trasformazione dell’attività di famiglia. Come hai fatto?

Mio padre Ilario ha fondato la carpenteria metallica Mingardo nel 1970 a Monselice, in provincia di Padova. Per tutta la vita ha lavorato con straordinario impegno e passione, tutti i giorni dalle 7 del mattino alle 8 di sera, raccogliendo le sfide che i clienti gli proponevano e cercando di realizzare, da bravo artigiano, tutto quanto gli veniva richiesto dai committenti di turno. Io sono entrato in officina a soli 18 anni, desideroso di imparare ma anche di portare il mio contributo. Avevo una passione per il design e una mentalità diversa, più assertiva e più incline alla sfida. Nel giro di pochi anni ho proposto di affiancare al tradizionale lavoro su commissione un cambio di prospettiva: volevo che fossimo noi al centro del processo creativo, a scegliere cosa produrre e come. Così, nel 2012-2013 abbiamo presentato i nostri primi oggetti d’arredo, realizzati con Aldo Parisotto in qualità di Direttore Creativo e con un primo gruppo di designer chiamati a interpretare il nostro stile. Da lì, sono seguite diverse collezioni, con designer giovani o affermati e talvolta anche in collaborazione con personalità periferiche al mondo del design, come fotografi e stylist.

Come ha reagito il mercato?

L’esito più sorprendente è stato il beneficio strategico che abbiamo riscontrato a livello di comunicazione e di immagine dell’azienda. Il nostro catalogo di prodotti ha dimostrato la gamma di lavorazioni che siamo in grado di eseguire, aprendoci a nuove e inattese opportunità non solo nell’ambito del prodotto, ma anche in quello del servizio custom. Oggi lavoriamo su entrambi questi due mondi. I prodotti Mingardo esprimono il nostro stile, elegante e minimale, e rappresentano un territorio di contaminazione e confronto con i diversi designer che chiamiamo a collaborare con noi, nell’ambito però di una chiara direzione artistica. Le lavorazioni custom spaziano enormemente – dalle cucine su misura alle sculture, in relazione alle richieste dei committenti – e trovano proprio nei nostri prodotti il loro miglior catalogo: la garanzia per il cliente che siamo in grado di realizzare quanto ci viene chiesto.

Qual è l’obiettivo della recente apertura della Galleria Mingardo a Milano?

Volevamo un luogo dove portare clienti e architetti e mostrare che sappiamo realizzare oggetti ma anche progettare interi ambienti, con grande flessibilità. Se ci viene affidato un progetto d’ambiente, siamo noi a fare da capofila di tutto il progetto: possiamo anche scegliere l’architetto più idoneo all’interno del nostro network, e gestire le collaborazioni con gli altri artigiani per tutte le altre lavorazioni: vetro, legno, etc. Avremmo voluto aprire la Galleria a Monselice, ma sarebbe diventata presto una caotica appendice del laboratorio, sopraffatta dal caos creativo. Abbiamo scelto quindi Milano, che è il luogo giusto per instaurare un dialogo con le migliaia di architetti e designer che ci lavorano o la frequentano in occasione dei grandi eventi cittadini.

La manualità rimane centrale anche in un’attività artigiana che fa ampio uso di strumenti e tecnologie?

Siamo ormai usciti dalla concezione tradizionale del fabbro che batte il ferro. Per effettuare alcune lavorazioni sono richieste non solo competenze manuali ma anche macchine e tecnologie evolute. Se si parla di artigianato, però, quello che fa la differenza è sempre la manualità, anche nell’utilizzo delle macchine e degli strumenti. Credo sia questa la visione corretta dell’artigianato contemporaneo.

Quale consiglio vorresti dare agli artigiani che cercano un approccio più contemporaneo al mestiere?

Farò un esempio. Tempo fa, se gli avessero chiesto di eseguire una saldatura su ottone con la saldatrice a TIG – uno strumento che garantisce un lavoro particolarmente pulito e senza residui – mio padre avrebbe risposto che non è possibile: per l’ottone ci vuole il cannello. Ecco: l’artigiano risponde spesso che “non si può fare”. Si basa sulla sua grande esperienza, e fa bene, ma si chiude di fronte alle novità. Io invece ci ho provato, ci ho passato le nottate, ho sperimentato, e ce l’ho fatta. Ora saldo tutti i metalli a TIG. Agli artigiani consiglio di osare, di aprirsi al nuovo, di cercare di imparare, di condividere i loro segreti e le loro conoscenze senza esserne gelosi. La mentalità giusta è che si può fare, basta trovare il modo di farlo.

Hai ricevuto il riconoscimento di Maestro d’Arte e Mestiere nel 2020. Che significato ha per te?

In Italia, a livello di artigianato, abbiamo tante straordinarie eccellenze che si stanno purtroppo perdendo. Provo un’enorme gratitudine per chi, come la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, difende e promuove da tanti anni e con grande impegno questo immenso patrimonio, e sono onorato di aver ricevuto il titolo di Maestro d’Arte e Mestiere.

 

Mingardo

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Lanificio Leo: il tessuto come superficie narrativa

Emilio Salvatore Leo, architetto e designer, non è un maestro d’arte in senso classico, ma è un vero maestro della visione laterale, una prospettiva che gli ha permesso di reinventare l’attività dello storico lanificio di famiglia, trasformandolo in un hub creativo a vocazione internazionale, aperto a una varietà di contaminazioni e narrazioni. Sperimentando sugli asset immateriali – storia, brand, relazioni – ha riconnesso la più antica fabbrica tessile calabrese non solo con il territorio in cui era nata nel 1873, ma anche con il resto del mondo. L’ha fatto nutrendo il suo progetto di una chiara visione politica, prima che imprenditoriale: il nostro territorio, le nostre persone e la nostra arte sono l’essenza stessa del Made in Italy.

Ci racconta la storia che ha portato il Lanificio Leo a rinascere?

La lunga storia del lanificio era legata a una società rurale che negli anni Settanta e Ottanta del Novecento era ormai scomparsa, o almeno troppo cambiata perché l’attività potesse proseguire in modo lineare. Rispetto alle origini, erano diverse persino le razze delle pecore allevate nella zona. Di fatto, la mia famiglia si trovò con una scatola vuota, dotata di scarso potere produttivo: una piccola cattedrale laica, in cui rimanevano le vecchie macchine tenute in vita da mio padre che era l’ultimo a conoscere il loro funzionamento. E io, figlio unico nato da un genitore ultracinquantenne, sembravo essere l’ultimo destinato a rilanciare l’attività, in una famiglia in cui mio padre era il secondo di otto figli e quindi intorno a me era pieno di zii e cugini, sulla carta più idonei di me a occuparsi del lanificio. Mi iscrissi a ingegneria, per poi passare ad architettura, e cominciai ad acquisire competenze sul territorio e sulla contemporaneità, sviluppando una consapevolezza: il rilancio non avrebbe mai potuto basarsi su una prospettiva rigidamente economica, era necessario un capovolgimento culturale. Se non si poteva riportare il lanificio nel mondo, bisognava portare il mondo al lanificio. Con la follia di quegli anni giovanili, alla fine degli anni Novanta organizzai Dinamismi Museali, un festival sul pensiero contemporaneo, fatto di musica elettronica, arti performative e design del limite. Per dieci anni abbiamo portato al lanificio nel cuore della Sila, persone e punti di vista internazionali – un atteggiamento che non ho mai più smesso di avere – chiedendo ai designer di sperimentare, interpretando il lavoro dei vecchi macchinari e del loro nuovo potere produttivo.

Più che follia giovanile, la sua sembra una visione contemporanea, quanto mai lucida e coraggiosa.

Mi fa sorridere il pensiero che mio padre mi abbia dato Salvatore come secondo nome. Forse tutto è accaduto secondo una sua precisa sceneggiatura. All’inizio la sperimentazione pura è stata il nostro modo di non avere deroghe. Forse nessun business plan avrebbe potuto portarci dove siamo oggi. La visione non è stata solo quella di far leva su strumenti culturali piuttosto che economici, ma anche di prendere una direzione non nostalgica. Fin dall’inizio, ho rifiutato l’idea di musealizzare il lanificio, di mettere le vecchie macchine in mostra e di affidare a un custode le chiavi di ottone del museo.

Cos’è oggi il Lanificio Leo?

È un laboratorio spinto sulla contemporaneità, un hub creativo aperto a contributi e punti di vista esterni, anche radicalmente opposti. Il lanificio opera come un editore, che dà voce ai singoli designer per far capire che il tessile è un dominio del design italiano, una superficie di espressione in cui c’è ancora molto da indagare.

In che cosa si esprime l’anima artigiana?

Nell’alta qualità del prodotto, che tende a quella del pezzo unico, nella scelta di farlo a regola d’arte. Non mi interessa il lusso – spesso legato a un concetto di status che mi è estraneo -, mi interessa piuttosto la durata della vita del pezzo, la sostenibilità della sua produzione, la sua accessibilità e il suo messaggio. Anche la produzione con le macchine può essere vissuta con spirito artigianale: per esempio abbiamo sperimentato molto sulle imperfezioni che derivano dall’uso di macchine storiche, imperfette per la loro usura, per valorizzarne la bellezza e l’unicità.

Detto questo, sono contro l’ortodossia, il nostro approccio è sempre stato quello dell’ibridazione, dell’interconnessione tra manualità e tecnologia, che per realtà come la nostra può essere la riserva di competitività che fa la differenza.

Come utilizzate la comunicazione?

Le aziende storiche di solito hanno una comunicazione molto rassicurante, basata sull’heritage e sulla tradizione. Nel nostro caso la comunicazione segue i tanti progetti realizzati, e sicuramente potrebbe essere utilizzata in modo più strategico, abbiamo ancora strada da fare su questo fronte. Uno dei cambiamenti già effettuati ha però riguardato il logo aziendale: dal leone, chiaro simbolo di forza legato al nostro cognome, siamo passati ad un agnellino, poi trasformato in una pecora stilizzata. Anche qui, una scelta più contemporanea, non priva di ironia.

Qual è il ruolo del territorio e come si esprime nelle creazioni del lanificio?

Il territorio è sempre stato al centro delle nostre sperimentazioni. Non ho mai voluto usarlo in modo opportunistico, e ho anzi sempre mantenuto con il territorio una relazione diretta, vivendo in questa periferia della periferia, anziché a Milano, dove sarebbe molto più facile intessere relazioni. C’è ancora molto da fare a livello di produzione, per radicare competenze stabili che servono anche a spersonalizzare la storia del Lanificio dalla mia: non sono un artigiano, che quando lascia porta via con sé i segreti del mestiere. La mia Calabria e il Meridione sono al centro di sperimentazioni anche a livello di contenuto, spesso con uno sguardo ironico, totalmente contemporaneo, come la serie di oggetti Tipicoatipico, decorati mediante xilografia a ruggine realizzata a mano. In fondo, il territorio, le persone e la nostra arte sono l’essenza stessa del Made in Italy.

LANIFICIO LEO

Via Cava, 43 – Soveria Mannelli (CZ)

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Fabio Ottaviano: cosa c’è dietro un cammeo

“È difficile far capire cosa c’è dietro un cammeo”. È iniziata così, con un moto di orgoglio e un tocco di mistero, la nostra chiacchierata con Fabio Ottaviano, maestro dell’incisione in miniatura su cammeo a Torre del Greco. Figlio di Pasquale – a sua volta apprendista ed erede di Giuseppe Scialanga, uno dei maestri cammeisti dell’Ottocento napoletano – Fabio ci ha raccontato la gioia di creare quotidianamente bellezza con infinita precisione e passione, le grandi soddisfazioni derivanti dal vedere riconosciuti i propri sacrifici, le sfide di un sistema che nel nostro paese non è ancora in grado di accompagnare compiutamente gli artigiani nel loro mestiere, offrendo loro apprezzamento e tutele.

Cominciamo da Torre del Greco: come è diventata la capitale mondiale del cammeo?

Quella del cammeo è un’arte antica, sicuramente già nota in epoca ellenistica e nell’antica Roma ma anche nelle culture orientali, e la sua origine si perde tra storie e leggende. Quel che è certo è però il ruolo dei Francesi – e soprattutto della Regina di Napoli Carolina Murat – nell’affermarsi della tradizione napoletana, e di Torre del Greco in particolare. La sorella di Napoleone era una grande estimatrice del cammeo e, secondo alcune fonti, durante la dominazione francese di Napoli fece giungere in città alcuni maestri da Oltralpe. Al tempo, a Torre del Greco arrivavano le navi che portavano coralli e conchiglie, e c’erano i tagliatori in grado di effettuare la prima lavorazione della materia, cosicché gli incisori napoletani ci si spostarono – diciamo per comodità – per svolgere il proprio mestiere. Da allora, l’abilità dei maestri e l’apprezzamento della loro arte sono cresciuti fino a fare della città l’indiscussa capitale mondiale del cammeo su conchiglia. Ancora oggi è una realtà viva e dinamica, con decine di laboratori attivi in città e un’importante scuola per la trasmissione di questo mestiere.

Qual è la prerogativa delle conchiglie?

L’incisione di un cammeo è possibile su diversi materiali, dalle pietre dure al corallo, ma la conchiglia sardonica ha delle caratteristiche cromatiche e di struttura che la rendono unica per delicatezza, trasparenza, fascino. È una materia viva, la cui resa espressiva è straordinaria, molto superiore a quella di pietre anche più preziose come il lapis o l’agata. Da una conchiglia di qualità i tagliatori possono ricavare tramite un processo chiamato scoppatura diversi cammei: normalmente due-tre dalla parte più pregiata, che è quella più tondeggiante, e altrettanti di qualità media. Le parti meno preziose vengono utilizzate anch’esse ma per creare prodotti più semplici, commerciali.

Quali sono i tuoi soggetti preferiti?

La conchiglia si adatta bene a molti temi ma è ideale per i soggetti classici della tradizione italiana, che non a caso sono quelli più tipici di questo mestiere. Personalmente, questi sono anche i soggetti che preferisco – penso per esempio a Botticelli – ma il mio laboratorio non si pone limiti. A Torre del Greco c’è un’ampia varietà di stili – chi si specializza in fiori, chi nei classici profili – ma la scelta del soggetto dipende anche dalle richieste dei committenti.

Il laboratorio Ottaviano lavora anche per grandi marchi del lusso mondiale: qual è il segreto per un artigiano che ambisce a collaborazioni di questo tipo?

Da oltre quindici anni realizzo cammei per i quadranti degli orologi di una storica Maison svizzera che ha una linea proprio dedicata alla Regina di Napoli. Per assumere committenze di questo tipo bisogna essere in grado di garantire contemporaneamente precisione assoluta, misure ultracalibrate e la personalità del pezzo unico realizzato a mano. È questo che vogliono i marchi del lusso. Qui oggi entra in gioco anche la tecnologia, che consente di coniugare l’unicità del lavoro artigianale con la perfezione assoluta delle misure. Queste sono collaborazioni di grande importanza che aiutano noi artigiani a veder riconosciuto il nostro mestiere, in Italia ma anche nel resto del mondo.

Ci sono paesi dove il tuo lavoro è particolarmente apprezzato?

La popolarità e l’apprezzamento che noi artigiani possiamo riscontrare all’estero sono straordinari. Penso per esempio alla Russia, alla Cina e al Giappone, dove il lavoro manuale è non solo ammirato ma anche promosso e, soprattutto, fortemente tutelato. Purtroppo nel nostro paese non c’è alcun tipo di tutela o di apprezzamento pubblico, c’è solo l’encomiabile lavoro delle Fondazioni e dei privati, che riescono a portare un po’ di luce sul nostro operato, a darci visibilità e ad attribuire riconoscimenti che ci danno davvero la forza e lo stimolo di continuare a creare, generazione dopo generazione.

Tu porti avanti l’eredità di tuo padre, chi porterà avanti il tuo lavoro?

Mio padre ha 87 anni e continua a lavorare in laboratorio. I miei figli sono ancora piccoli, ma sono ottimista! È però fondamentale che capiscano che non si può fare questo mestiere senza sacrifici e senza un’enorme passione. Ci vogliono studi, idealmente non solo la scuola di incisione ma anche l’Accademia, e tanta pratica. All’inizio non è facile, anche perché quando si lavora su materiali allo stesso tempo preziosi e fragili un errore può costare molto caro, e io stesso tendo ad affidarmi solo a collaboratori di assoluta fiducia anche per le lavorazioni di base, quelle propedeutiche all’incisione artistica. Come dicevo all’inizio, è difficile far capire cosa c’è dietro un cammeo.

 

OTTAVIANO ART

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Andrea De Simeis: gesti lenti e storie universali

C’è un forte senso di unità e compiutezza nel lavoro di Andrea De Simeis, incisore e cartaio salentino, fondatore dell’Associazione Cubiarte. Unità tra pratica artigianale e intenzione artistica, tra mestiere e vita, tra passato e presente, tra sé e l’altro. Lavorare con la natura e con la sua ciclicità stagionale, ci racconta, è una continua educazione all’equilibrio: se ben accolta, può insegnarci che le nostre pratiche possono essere non solo sostenibili, ma anche profondamente in armonia con l’ambiente.

Maestro, lei è giunto alla pratica di cartaio partendo da studi d’arte, di grafica in particolare. Il mestiere è per lei funzionale all’intenzione artistica legata all’incisione?

All’inizio, la passione per la carta è stata un fenomeno collaterale, un’avventura. Mi sono però reso conto subito che nella grafica la qualità della carta non è secondaria rispetto all’opera stessa: basta provarne diverse per capire l’influenza, la resa espressiva rispetto alla matrice. Alla fine, la pratica artistica e quella artigiana si completano e si valorizzano, sono aspetti complementari dello stesso processo creativo.

Che ruolo hanno avuto i suoi maestri nell’acquisizione di questa consapevolezza?

Ho avuto alcuni maestri importanti e ce n’è uno tra tutti che ha avuto un ruolo fondamentale, il mio maestro di grafica all’Accademia di Belle Arti, Glauco Lendaro Càmilles, intimo amico di Pier Paolo Pasolini. Descrivere il suo insegnamento sulla lentezza non è per me facile, è come parlare del vento: ha costruito per me un percorso speciale, di una tale intensità che alle volte dopo le sue lezioni mi veniva la febbre. Era però un malessere condito di passione.

A lui sono seguiti altri maestri, in un percorso à rebours che giunge fino a quelli che ho avuto l’onore di avere in Giappone. Quando ho cominciato a produrre carta washi, una delegazione giapponese è venuta a verificare il mio lavoro, per valutarne la qualità. Non solo ho avuto l’onore di veder riconosciuto il mio operato, ma sono stato anche invitato a lavorare con due maestri – Yamamoto Sensei e Suzuki Sensei – cui è stato riconosciuto il titolo di Tesoro Vivente. Quell’invito, vissuto con l’emozionante ritualità tipica della cultura nipponica, è stato un momento di assoluta meraviglia nella mia vita e mi riconosce il merito di realizzare la miglior washi (carta al novero Unesco dal 2006) fuori dal territorio nipponico.

E che ruolo ha la lentezza, nel suo lavoro e nella sua vita?

Vivo nel mio Salento e ho adottato il ritmo di questa periferia, che ben si integra con il mio mestiere. Vivere e lavorare con le piante, soprattutto, educa alla ciclicità delle stagioni. Lo stile di vita e la professione sono in armonia, dando origine a buone pratiche che sono virtuose, funzionali alla qualità del lavoro e, paradossalmente, persino più efficienti, nella loro lentezza. Bisogna essere non solo o non tanto sostenibili, una parola che oggi viene un po’ abusata, ma in reale equilibrio con ambiente e territorio.

È corretto dire che nei viaggi nello spazio e nel tempo che sono oggetto delle sue opere, si manifesta un senso di universalità che trascende le singole storie?

Assolutamente. Per esempio, ho lavorato alla monografia illustrata sulla battaglia ai corni di Hattin – la più sanguinosa disfatta dei cristiani in Terrasanta per mano di Saladino – durante la guerra in Iraq, dopo l’attacco alle torri gemelle. Nelle mie incisioni, anche grazie al lavoro fatto sulla carta, cerco di restituire la ciclicità della storia e far emergere un seme di universalità. L’eterno pregiudizio, la negazione dell’altro, è da sempre il primo ingrediente di ogni conflitto.

A proposito di ciclicità, che rapporto ha con gli apprendisti, come la tirocinante ospitata nell’ambito del progetto “Una Scuola, un Lavoro” della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte?

Accolgo con gioia molti giovani apprendisti e tirocinanti, dall’Italia e dall’estero. È bellissimo incontrare il loro appetito di conoscenza e il mio laboratorio non ha segreti per loro: mi lascio completamente divorare. Il rapporto instaurato con Daniela Fumarola, che l’anno scorso ha trascorso con noi sei mesi, è stato più simile a un’adozione che a un tirocinio.

È vero che il suo primo apprendista è stato un po’ particolare?

Quando ho iniziato a esercitare il mestiere di cartaio, circa vent’anni fa, sono stato considerato pazzo da molti amici attorno a me. Avevo deciso di lasciare un lavoro sicuro come grafico, ben retribuito, per dedicarmi ad un mestiere antico e lento, che sembrava destinato a morire, come i libri di cui al tempo si profetizzava l’estinzione. Ho trovato la comprensione che altrove mi è mancata nei miei nonni: la loro generazione era stata educata alla lentezza, in armonia con i ritmi della natura. Così, hanno cominciato ad aiutarmi: posso dire che mio nonno Gino è stato il mio primo apprendista.

CUBIARTE di Andrea De Simeis

Via Roma, 71

Caprarica di Lecce, LECCE

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Fabio Fornasier: il ciclo della bellezza

Fabio Fornasier, classe 1963, è un Maestro del vetro muranese, figlio d’arte che ha acquisito dal padre Luigi le tecniche e la passione per questo mestiere unico al mondo, ma anche padre che sta trasmettendo al figlio i segreti della fornace. Nelle sue originali creazioni, lo stile e la tecnica tradizionale si arricchiscono di un afflato artistico che deriva da curiosità, apertura al nuovo, inclinazione alla sperimentazione, e il suo riconosciuto capolavoro e best-seller, il lampadario Lu-Murano, testimonia lo stile contemporaneo, leggero ed evocativo del Maestro, nominato MAM – Maestro d’Arte e Mestiere nel 2024.

Da figlio d’arte che ha saputo modernizzare l’attività di suo padre Luigi, può raccontarci quali sono le opportunità di un artigiano del vetro oggi, rispetto a 50 anni fa?

Oggi un giovane ha molte più opportunità rispetto al passato. Intanto, non serve più viaggiare per aggiornarsi e confrontarsi: tutte le informazioni sono sempre facilmente a portata di mano, tramite un computer o un cellulare. Per me è un aspetto fondamentale, perché sono sempre alla ricerca di nuove fonti di ispirazione, soprattutto nelle creazioni di artisti e artigiani che lavorano altri materiali. Inoltre, oggi c’è il lavoro ma manca la manodopera. I giovani che escono dalle scuole di formazione sono pochi e vengono subito assorbiti dalle fornaci più grandi. Eppure, il mestiere del Maestro vetraio è cambiato: andare in fornace non è più una punizione per i giovani che non hanno voglia di studiare, ma rappresenta l’opportunità di fare un lavoro unico e creativo, riconosciuto e fonte di grandi soddisfazioni.

Come vede la situazione dei vetrai di Murano oggi?

Il lavoro c’è ma le condizioni sono difficili, e i Maestri sono sempre meno: non è facile arrivare a contarne dieci, oggi. Quello della manodopera giovane è il problema principale, qualcosa su cui bisognerebbe lavorare cambiando la narrazione e l’immagine del Maestro vetraio, facendo capire che è un lavoro di prestigio. Poi c’è il problema serio dei costi – soprattutto quelli del gas e delle materie prime – che sono letteralmente raddoppiati nel corso degli ultimi cinque anni.

Chi sono i suoi principali clienti e committenti, e cosa cercano da un Maestro muranese come lei?

Noi non abbiamo rivenditori: lavoriamo esclusivamente su commissione insieme ad architetti, designer o clienti finali, che si rivolgono a noi principalmente per avere una versione unica, realizzata su misura, personalizzata nelle dimensioni e nei colori, del mio lampadario Lu-Murano. In questo ha un ruolo essenziale mia figlia Valentina, che funge da tramite tra me e i clienti.

Nell’arte muranese del vetro c’è ancora spazio per la sperimentazione? È possibile individuare delle aree comuni di ricerca, delle tendenze, o ogni fornace ha le sue specialità?

I maestri artigiani che lavorano in autonomia, non quelli che svolgono il proprio mestiere come dipendenti, hanno una grande libertà. Per me la sperimentazione è una dimensione quotidiana, sono molto curioso e ancora oggi non vedo l’ora di aprire il forno di raffreddamento, al mattino, per vedere il risultato del mio lavoro. I vetrai di Murano sono stati spesso accusati di non innovare, di uniformarsi in una produzione sempre uguale a sé stessa, ma proprio per questo, chi esce dalle tendenze realizzando qualcosa di nuovo ha la facoltà di emergere, farsi notare. A me è successo nel 2003, quando ho presentato Aria e Fuoco, lampadario alimentato a olio che poi è diventato Lu-Murano in versione elettrificata.

Lei tiene o ha tenuto lezioni in diverse prestigiose istituzioni internazionali. Qual è il principale insegnamento che ritiene di poter trasmettere ad un giovane che vuole fare questo mestiere?

Bisogna partire dalle basi e non pensare di poter bruciare le tappe. Il nostro è un mestiere estremamente tecnico, che cresce con l’esperienza e gli errori, ogni passo falso ha un suo perché. Purtroppo ci sono vetrai – penso soprattutto alle scuole americane – che realizzano pezzi interessanti ma poi non sono in grado di replicarli, non hanno metabolizzato completamente l’aspetto tecnico del proprio lavoro.

Nel 2024 ha ricevuto il riconoscimento di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Cosa ha rappresentato per lei questo riconoscimento?

È stata una grande felicità e un forte motivo di orgoglio. So bene quanta cura pone la Fondazione Cologni nella scelta dei suoi premiati, ed è sempre bello ricevere un premio alla carriera finché si è ancora vivi! Ho visto riconosciuta la mia passione, in un contesto tra l’altro meraviglioso, come l’Isola di San Giorgio nella mia Venezia, durante l’evento Homo Faber.

Ha un progetto del cuore? Un progetto di cui si è innamorato o uno che non è legato direttamente al mercato ma che risponde piuttosto ad un suo desiderio personale?

Il mio progetto del cuore è diventare l’assistente di mio figlio Nicolò. Oggi è lui che assiste me, ma il giorno in cui potremo invertire i ruoli sarà quello in cui potrò riconoscere che è arrivato.

VETRERIA ARTISTICA FORNASIER LUIGI

Calle del Paradiso 14

30141 Murano (Venezia) – Italia

Tel. +39 041 736176 – info@lu-murano.it

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Laura di Giovanna Nocito: Il canto del corallo

Laura di Giovanna Nocito crea gioielli unici facendo “cantare” il corallo di Sciacca, un dono che il mare ha offerto alla cittadina siciliana quasi due secoli or sono. Erede di una famiglia la cui storia è stata scritta, generazione dopo generazione, da grandi personalità femminili, Laura ha ricevuto nel 2024 il riconoscimento di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere per il suo talento nell’arte orafa, e nell’intervista che segue ci racconta le appassionanti storie, quasi leggendarie, che l’hanno portata a fare del corallo il suo mestiere.

Ci racconta la storia del corallo di Sciacca?

È una storia unica e leggendaria, legata ad un evento eccezionale. Un giorno del 1831, la popolazione di Sciacca si svegliò terrorizzata da improvvisi boati e tremori, accompagnati da un forte odore di zolfo. Per capire l’origine di questo sconvolgimento, i pescatori uscirono in mare con le loro imbarcazioni e scoprirono che, a poche miglia dalla costa, era emersa una nuova isola, che sarebbe passata alla storia come l’Isola Ferdinandea. L’isola scomparve nel giro di pochi mesi sotto la superficie del mare, ma preannunziò l’inizio di un’epopea che portò, dal 1875 in poi, alla scoperta di tre immensi giacimenti di corallo, cresciuti sulle pendici dei vulcani sottomarini di cui il nostro mare è costellato, e poi accumulatisi in profonde sacche sottomarine per migliaia e migliaia di anni. Il corallo di Sciacca è nato così: è un dono del mare e del tempo.

Come si è inserita la sua famiglia in questa storia?

Tutto è partito da una donna, la mia antenata Concetta Venezia, figlia di commercianti, divenuta sposa nel 1905 di Peppino Nocito, suo cugino, ultimo rampollo di una famiglia di nobili origini. Peppino non voleva che sua moglie lavorasse, sarebbe stato disdicevole per il suo status sociale, ma la componente femminile della mia famiglia si è fin da allora distinta per una certa ribelle caparbietà. Concetta, incapace di adattarsi alla vita comoda, approfittò dell’arrivo nell’albergo di proprietà di famiglia di un rappresentante di gioielli e, fattisene lasciare alcuni, cominciò a venderli alle amiche di nascosto dal marito. Quando Peppino se ne accorse non fu un momento facile. Non sappiamo i particolari di quello che accadde. Sappiamo solo che, quattro anni dopo, la coppia era ancora ben salda, l’albergo non c’era più e Concetta era la titolare della più importante gioielleria di Sciacca. Dalle sue mani passarono montagne di corallo, la grande epopea della pesca era ancora in corso e finì solo nel 1914, con l’inizio della Grande Guerra.

Come si distingue il corallo di Sciacca?

È un corallo unico per durezza, lucentezza e compattezza. Ha una gamma di colori che vanno dal rosa pallido all’arancio intenso, a volte segnato dal tempo, ed è completamente ecosostenibile in quanto trattasi di corallo morto, subfossile. Per raccoglierlo non si distruggono organismi viventi.

Quali sono le tecniche e le principali sfide della lavorazione del corallo?

Lavorare il corallo è un mondo a parte, scandito dal suo “canto”, il tintinnio che emette quando due pezzi si urtano. Non è possibile automatizzare nulla, deve essere tutto fatto manualmente, meglio se con strumenti realizzati o modificati ad hoc, in modo da poterne gestire le irregolarità e l’unicità, e secondo tecniche antiche che vengono tramandate unicamente dai maestri corallari. Lavorare il corallo è un’opera di scultura vera e propria, che si fa in tandem con il materiale stesso: tu fai quello che il corallo ti lascia fare, devi cogliere quello che ti suggerisce. Nella mia formazione, la svolta è stata la possibilità di apprendere il mestiere da un maestro straordinario come Platimiro Fiorenza che, nonostante le perplessità iniziali dovute all’arrivo di una donna in un mondo di soli uomini, mi ha infine accolto nella sua bottega e insegnato i segreti della sua antica arte.

Quella della vostra famiglia è una storia in cui le donne sono sempre state protagoniste. È ancora una sfida?

A partire da Concetta, le donne sono sempre state protagoniste della storia imprenditoriale della nostra famiglia, con l’unica interruzione di un periodo in cui mancò l’erede femminile. Mio padre fu figlio unico e volle fare l’ingegnere. Io ho riaperto l’attività nel 2005. La verità è che, in Sicilia, sotto le apparenze, vige un vero matriarcato e la nostra terra è piena di storie di donne indipendenti, anche imprenditrici, come Donna Franca Florio. Questo non vuol dire che le sfide non siano tante e dure, anche oggi. Ho dovuto lottare, anche per la mia formazione.

Quando realizza gioielli, cosa guida la sua creatività?

Ogni giorno, l’ispirazione nasce da quello che mi circonda: il mare, il sole, la natura, le tradizioni della mia terra, non solo quelle relative ai gioielli ma anche ad altri mestieri, come la cartapesta e la ceramica.

Cosa ha significato per lei il riconoscimento MAM – Maestro d’Arte e Mestiere?

Ho accolto la notizia con incredulità: mi sono sentita quasi paralizzata, prima di concedermi all’entusiasmo. Non mi sentivo all’altezza di raggiungere il medesimo traguardo del mio maestro Platimiro Fiorenza, ma allo stesso tempo il premio rappresentava il riconoscimento che sentivo di meritare per la mia passione, per le difficoltà incontrate nel mio percorso. Non è solo un traguardo, è anche un nuovo punto di partenza, perché il corallo è un mondo infinito, c’è ancora moltissimo da imparare.

Contatti
Nocito Gioielli
Via Venezia, 8A – Sciacca (AG)
+39 0925 85386 – info@nocitogioielli.com
www.nocitogioielli.com

Beatrice Barni: l’artigiana delle rose

Per celebrare l’arrivo della primavera, la Biblioteca degli Alberi di Milano si è arricchita di un nuovo roseto che ospita anche la Rosa Mestieri d’Arte, una varietà creata dal vivaio pistoiese Rose Barni per la Fondazione Cologni. La scienziata, contadina e artigiana che ha reso possibile la nascita di questa varietà – poetica metafora di un mondo delicato e potente, che trasforma la materia in bellezza – è Beatrice Barni, discendente della famiglia che da quattro generazioni dà vita a nuove espressioni di bellezza, ed esperta in ibridazione, mestiere per cui è stata anche premiata come MAM – Maestro d’Arte e Mestiere nel 2018. Un mestiere indubbiamente unico e peculiare nell’universo dell’artigianato, di cui Beatrice ci ha svelato alcuni dei molti segreti.

L’ibridazione delle rose è un mestiere poco conosciuto, ci vuole brevemente raccontare come funziona?
A differenza della moltiplicazione vegetativa come l’innesto o la talea, l’ibridazione è una riproduzione sessuata: è l’unico metodo che permette l’ottenimento di una nuova varietà di rosa, grazie alla combinazione del polline proveniente da una varietà, con la parte femminile (pistilli) di un’altra varietà. In pratica, l’uomo si sostituisce a ciò che fanno già in natura gli insetti o il vento, ma in maniera più mirata e specifica.

Forme, colori, profumi, resistenza, adattabilità, ciclo di vita: quali sono gli elementi su cui si può intervenire?
La rosa è un genere assai eterogeneo, che presenta variabilità in aspetti di tipo estetico (forma e colore dei fiori, profumi di diversa composizione), ma anche in quelli vegetativi (portamento, tipo di fogliame, presenza/assenza di spine, formazione di bacche ornamentali). L’ibridazione cerca di selezionare le varietà sempre più interessanti, mettendo comunque al primo posto la resistenza alle malattie e la capacità di rifiorire per tutta la stagione.

Fino a che punto si riesce a controllare il risultato?
Esistono delle linee guida, nate solo dall’esperienza e dall’osservazione, che possono essere seguite nella ricerca di un certo carattere, ma non esiste niente di certo e spesso andiamo incontro a sorprese nei risultati.

La vostra famiglia opera nella floricultura dalla fine dell’Ottocento. Quanto è importante nel vostro mestiere tramandare la conoscenza?
La trasmissione dell’esperienza è uno degli aspetti fondamentali della nostra attività, dal momento che tutte le conoscenze sia in ambito produttivo che in quello logistico sono frutto di anni di prove e sperimentazioni, in risposta alle più diverse condizioni ambientali.

Lei crea rose che non esistono in natura: si sente più contadina, scienziata, artigiana o creatrice
Nel nostro lavoro occorre essere eclettici e coprire tanti ruoli insieme, nel mio lavoro sono fortunata per poter sperimentare diverse attività, che mi portano ad essere in diretto contatto con la natura, ma anche con tante persone.

Avete dedicato rose a tanti nomi famosi. Scegliete le caratteristiche della rosa sulla base del personaggio o vi fate ispirare dalla rosa per abbinarle un nome?
Nella nostra attività di ibridatori, ci siamo trovati spesso a dover cercare la varietà giusta per essere dedicata ad un personaggio famoso, ma possono capitare anche casi inversi, in cui è importante individuare il nome appropriato ad un nuovo ibrido, con caratteristiche definite.

Negli ultimi anni il suo lavoro ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, come il premio Talent du Luxe et de la Création in Francia e il MAM – Maestro d’Arte e Mestiere, in Italia. Quali sono le prossime sfide?
Più che parlare di sfide, amerei sottolineare la tenacia e la curiosità nello scoprire e sperimentare ciò che ci riserva la natura. Il mondo della Rosa è estremamente affascinante e in continua evoluzione, mio nonno sosteneva che la rosa perfetta è quella che deve ancora venire.

ROSE BARNI

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Pistoia
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Bevilacqua: la ceramica per raccontare la Sicilia al mondo

Ispirati dalla vena artistica materna, nel 1997 Giuseppe e Antonio Bevilacqua fondano in un piccolo centro in provincia di Caltanissetta un laboratorio di ceramica, dove realizzare con uno stile più contemporaneo – ma con le tecniche tradizionali – i tipici manufatti della ceramica di Caltagirone e di Santo Stefano di Camastra: teste di moro, pigne, tavolini. Con passione e tenacia i fratelli raggiungono la consacrazione in un tempo relativamente breve, riuscendo a stringere collaborazioni di altissimo profilo come quelle con Dolce&Gabbana, e ottenendo nel 2022 il titolo di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere della Fondazione Cologni per i Mestieri d’Arte.    

Ci raccontate come è iniziata la vostra storia nel mondo della ceramica?

Tutto inizia nel 1997. Un’avventura che parte da nostra madre, che da sempre dipinge e che ci ha tramandato la sua passione artistica. Ci piace dire che abbiamo scommesso su noi stessi, accompagnati da un pizzico di follia e da una grande tenacia. Abbiamo aperto una piccola bottega nel centro storico di Campofranco, a pochi chilometri dalla splendida Valle dei Templi di Agrigento, e lì abbiamo iniziato a creare oggetti che raccontano la nostra storia, la tradizione della ceramica siciliana e il territorio in cui viviamo. Un laboratorio dove i nostri manufatti prendono vita, fuori dal classico itinerario delle tradizionali ceramiche siciliane.

Che importanza ha il territorio, la Sicilia, la tradizione di Caltagirone, nella vostra attività?

Il legame con il nostro territorio è fondamentale. Abbiamo attinto dalla tradizione di Caltagirone e Santo Stefano di Camastra, creando però un nostro stile distintivo. Ogni oggetto plasmato è una piccola opera d’arte, unica ed irripetibile, interamente realizzata a mano. Dalla lavorazione dell’argilla alla sua modellazione fino al decoro e alla cottura ogni oggetto prende vita dalle nostre mani.

Avete delle specializzazioni tra voi due o siete “intercambiabili”?

Lavoriamo all’unisono, ci completiamo e ci capiamo con un semplice sguardo. Lavoriamo tutti i giorni a stretto contatto condividendo tutto, sempre insieme ed uniti. Un’intesa che ci permette di lavorare in armonia e nel totale rispetto l’uno dell’altro.

Il vostro stile e la vostra tecnica sono strettamente tradizionali?

La tradizione è la nostra cifra artistica. Tutti i pezzi sono creati in argilla bianca per scelta, in quanto i colori su questa base risultano essere più brillanti e intensi. Argilla, acqua, pigmenti, affidabilità e passione: così nasce uno dei nostri prodotti. La tradizione è la base da cui partiamo e la traghettiamo ai giorni nostri. Passato, presente e futuro al tempo stesso si fondono nei nostri manufatti. La tradizione millenaria della ceramica siciliana, il design, l’artigianalità e l’innovazione si mescolano dando vita a prodotti, interamente realizzati in Sicilia, in cui ogni pezzo ha il sapore dell’esclusività. Cultura della materia, conoscenza delle tecniche di produzione, di decorazione e cottura, rendono i prodotti di altissimo livello qualitativo. Ogni oggetto è espressione di un design unico ed esclusivo capace di interpretare il gusto della tradizione strizzando l’occhio al futuro. Teste di moro, tavolini, e pigne, da complementi d’arredo diventano opere d’arte esclusive.

Voi negli anni avete instaurato importanti collaborazioni professionali come quella con il marchio Dolce&Gabbana. Qual è il segreto per essere scelti da una realtà così prestigiosa?

Poter lavorare con un marchio di moda così importante e conosciuto nel mondo è un onore per noi. Consigliamo a tutti coloro che vorranno accogliere il nostro suggerimento di lavorare tanto, con impegno, puntualità e passione. Inoltre è fondamentale la capacità di trasferire perfettamente nei manufatti quello che il committente chiede e desidera. Siamo sempre pronti a creare prodotti ad hoc seguendo le indicazioni che ci vengono date.

Quali opportunità offre oggi ad un giovane artigiano il mondo della comunicazione?

La comunicazione è una vetrina sul mondo, aiuta a portare il proprio lavoro fuori dal laboratorio e così a farsi conoscere e apprezzare da un pubblico sempre più vasto e desideroso di avere all’interno delle proprie case, negli uffici e negli atelier prodotti della tradizione siciliana con un tocco contemporaneo.

Quali sono le vostre prossime sfide?

Le sfide, per noi artigiani, sono tante, tutti i giorni. Forse quella a cui entrambi aneliamo maggiormente è quella di riuscire a portare la nostra arte fuori dai confini nazionali. Vedere i nostri manufatti posizionati nei più svariati contesti internazionali ci riempie di orgoglio e soddisfazione e ci spinge a fare meglio tutti i giorni.

 

CERAMICA BEVILACQUA

Piazza Francesco Crispi, 24 – Campofranco (CL)

+39 0934 959390 – info@ceramicabevilacqua.com

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